A cura dell’avv. Giovanna Russo
Sempre più ricorrente è la notizia di episodi di violenza sulle donne che coinvolgono passivamente e attivamente i piccoli.
Basti considerare le tante volte in cui i minori, raggiunta l’età sufficiente per essere ascoltati dal giudice, testimoniano le condotte di violenza subita dalle loro madri, a cui talvolta hanno preso parte come spettatori inermi, altre volte come deboli intervenienti per sedare la violenza del padre.
Questi bambini, i bambini che assistono alla violenza tra genitori presentano un rischio più elevato per una moltitudine di problemi affettivi e comportamentali, tra cui ansia, depressione, scarsi risultati scolastici, basso livello di autostima, disobbedienza, incubi e disturbi fisici nonché un’elevata probabilità di replicare i comportamenti osservati, una volta diventati grandi.
Questa stima delle conseguenze di episodi di violenza assistita incentiva a parlare di questa triste piaga, da molti sottaciuta, in realtà rappresentante il risvolto più cruento della violenza domestica.
Perché si possa parlare di violenza assistita, non c’è bisogno che il piccolo figlio venga picchiato direttamente, bensì basta la crescita all’interno di una casa avvolta dalla paura, la responsabilità e il senso di colpa che si scatenano nel bambino che vorrebbe aiutare la mamma, ma si sente inerme e l’ansia costante di poter subire anche lui quello che vede accettare quotidianamente dalla madre.
Le donne dovrebbero denunciare per le condotte subite in prima persona e soprattutto per le ripercussioni sui propri figli, infatti la violenza assistita integra il reato di maltrattamenti in famiglia previsto all’art. 572 C.P. così come ribadito dalla Corte di Cassazione, sezione penale, con sentenza n. 18833/2018 ed espressamente disciplinato nella Legge n. 69/2019.
In particolare, l’art. 9, comma 2, della legge n. 69 del 2019, ha inserito nell’art. 572 cod. pen. un ultimo comma con il quale è stata introdotta un’inedita circostanza aggravante nel caso in cui il delitto sia commesso “in presenza o in danno di minore, di donna in stato di gravidanza o di persona con disabilità come definita ai sensi dell’art. 3 della legge 5 febbraio 1992, n. 104, ovvero se il fatto sia commesso con armi”: in tutti questi casi è previsto l’aumento della pena fino alla metà.
In estrema sintesi, il minore degli anni 18 che assiste alla violenza deve essere considerato, a sua volta, persona offesa del reato e sarà pienamente legittimato a costituirsi parte civile nel procedimento instaurato nei confronti del genitore, per il reato di cui all’art. 572 C.P.
Nella migliore delle ipotesi, la violenza assistita culmina nel reato di maltrattamenti in famiglia, quando per fortuna la mamma, nonché donna vittima di violenza, riesce a denunciare e in tempo sottraendosi e a sottraendo il figlio dall’uomo violento, ma nella peggiore delle ipotesi, quando la donna non riuscirà a sottrarsi dalla violenza subita per anni, non avremo solo vittime di violenza assistita ma avremo dei veri e propri orfani di femminicidio.
Foto: opera ritraente la violenza assistita secondo Rocco Antonio Valente